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Essere Lea. Quando la verità brucia più del fuoco

by Redazione Ticronometro

Ci sono parole che si stampano dentro. Non per come suonano, ma per il dolore che portano. E quando chi parla lo fa senza alzare la voce, ma regge sulle spalle una storia come quella di Lea Garofalo, allora si tace e si ascolta. E si prova a ricordare tutto.

La testimonianza pronunciata a Caselle da Marisa Garofalo, sorella di Lea, non è un semplice racconto. È un atto di resistenza. Di denuncia. È il filo teso tra la memoria e la rabbia, tra l’amore per una sorella e l’indignazione per uno Stato che non ha saputo proteggerla.

Lea Garofalo ha sfidato da sola l’‘ndrangheta, scegliendo la giustizia in un contesto dove nessuno le credeva. Non voleva una figlia cresciuta nella paura, non voleva più una vita negata dal silenzio e dalla violenza. E ha pagato con la vita.

Marisa, con fermezza e lucidità, ha ripercorso davanti a una platea commossa ogni passaggio di quella lunga agonia che si sarebbe potuta evitare. Ha fatto nomi, date, errori e omissioni. Non per cercare vendetta, ma per ribadire che la verità, anche bruciata in un bidone, non può essere cancellata.

Noi non la commenteremo. Non la semplificheremo. Qui sotto, come per Salvatore Borsellino e Piera Aiello, la pubblichiamo integralmente, trascritta con attenzione (ci scusiamo per eventuali errori), perché resti. Perché non si dimentichi.

E perché, come ha detto Marisa nel finale, “facciamo anche noi in modo di essere Lea, testimoni di verità e di giustizia.”

Il discorso integrale di Marisa Garofalo

P. D. : Anche lei ha un peso notevole sulle spalle, che è il racconto di sua sorella Lea, e quindi anche lei si spende per portare dovunque possibile una storia che è diventata esemplare, letteratura.

Buonasera a tutti e a tutte. Grazie Mauro, grazie per avermi invitata e per avermi dato veramente la passione di far parte di questo meraviglioso gruppo. E ti sono veramente grata perché mi hai aperto le porte dal primo giorno, le porte di casa, e di questo ringrazio anche tua moglie Barbara. Grazie Barbara.

Niente, io 15 giorni fa sono stata nuovamente qui a Torino, ad Alpignano, dove è stato dedicato a Lea un bene confiscato, praticamente un bar dell’‘Ndrangheta. È stato consegnato all’associazione Calabresi per la Legalità ed è diventato la casa della legalità Lea Garofalo. E di questo ringrazio l’associazione Calabresi per la Legalità.

Vi saluta Mauro e si scusa per non essere qua stasera. Lea è stata la prima testimone di giustizia del Crotonese.

Io praticamente provengo da una famiglia di ‘Ndrangheta. Mio padre è stato ucciso quando noi eravamo piccolissimi. Mio fratello aveva dieci anni, io avevo otto anni e Lea aveva appena otto mesi.

Col passare degli anni lei ha avuto la sfortuna di incontrare questo ragazzo che apparentemente sembrava un ragazzo tranquillo, ma si sapeva già nel paese che, assieme ai fratelli, gestiva un traffico di droga a Viale Montello a 6.

Praticamente lei, dopo aver conosciuto questo ragazzo — io cerco di essere breve perché la storia è molto lunga — scappa via di casa con questo ragazzo e va a vivere a Milano.

È nata così la sua prima e unica figlia, Denise. Lei, una volta che va a vivere a Milano, capisce subito che questo ragazzo non lavorava perché la notte era fuori casa e di giorno stava sempre a dormire. E ogni volta che Lea lo invitava a cercare un lavoro perché c’erano delle responsabilità e c’era una bambina piccola, le uniche risposte erano sempre le botte.

Nel 1997 il compagno di Lea venne arrestato. Lea decide di andare in carcere a fare un colloquio per dire: “Non voglio la bustarella mensile che i tuoi amici, i tuoi fratelli mi portano ogni mese, voglio cercare un lavoro, guadagnarmi dei soldi onestamente e spenderli per mia figlia.”

Anche lì Lea avrebbe preso schiaffi, per cui interruppe il colloquio, e da quel momento decide di non andare più a trovare il suo compagno e tantomeno portare la bambina.

Inizia così per Lea un periodo di scappa e fuggi, insomma, perché non potendo più vivere a Milano, scappò a Bergamo. Viene ritrovata subito — comunque dopo poco tempo — e Lea inizia ad avere delle grandi minacce: le bruciarono un paio di volte la macchina. Nel 2000 torna al paese, le bruciano nuovamente la macchina, e quella notte Lea decide di denunciare, per dire: “Non mi fate vivere, io voglio la mia libertà, e vi denuncio e vi mando tutti in galera.”

Ma in realtà non fu così, perché Lea in quella sera viene sentita da un magistrato, viene messa in un programma di protezione provvisorio, che purtroppo la provvisorietà durò 7-11 anni. Quello doveva durare un anno, certo.

Lea, nel 2009, decide di abbandonare il programma di protezione perché più volte era stata ritrovata, più volte era stata sbattuta fuori dal programma di protezione assieme a sua figlia, una bambina di 9 anni. Lei fece già ricorso al TAR, al Consiglio di Stato, che la riamise nel programma di protezione, ma le cose non cambiarono.

Nel novembre del 2009 Lea si reca a Milano assieme a sua figlia Denise e viene attirata in una trappola dal suo ex compagno. Quella sera il suo ex compagno fa in modo di separare Lea da Denise. E mia sorella — non so quanti conoscono la storia — hanno visto le ultime immagini di Lea passeggiare in via Paolo Sarpi.

Va il suo ex compagno, preleva la bambina con la scusa di portarla a casa dei suoi cugini. Lea rimane sola. Lui ritorna dopo 15 minuti, preleva Lea, la porta in un appartamento in via Parea a Milano.

Lì Lea viene picchiata a sangue, viene torturata, poi viene strangolata con una corda e il suo corpo è stato prelevato il giorno dopo, portato a San Fruttuoso, in una località di Monza. Il corpo di Lea viene messo in un bidone, a testa in giù, e bruciato con della benzina per tre giorni.

Grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia — grazie tra virgolette, perché non mi sento di ringraziare un vigliacco, un assassino che ha preso parte all’omicidio di mia sorella e si è pentito solo dopo aver visto una seconda condanna nel cassetto. E comunque sono state le sue dichiarazioni a farci conoscere la vera storia, perché naturalmente si pensava che lei fosse stata uccisa e sciolta nell’acido.

I resti di Lea vennero buttati in un tombino dove, a malapena, si è potuto risalire all’esame del DNA, e il corpo di Lea è stato ridotto in 4.000 frammenti ossei.

C’è stato un processo in cui io mi sono costituita parte civile assieme a mia mamma e a mia nipote, la figlia di Lea. Grazie alle nostre dichiarazioni — perché siamo state riconosciute le uniche due testimonianze attendibili nei primi processi processuali, sia io che mia nipote — ci sono state quattro condanne all’ergastolo e una pena riduttiva per il collaboratore di giustizia.

La storia di Lea è una storia molto importante, una storia che ha colpito la mia famiglia, però penso che è una storia — come la storia di Mauro — che dovrebbe riguardare tutti, non solo le nostre famiglie.

Lea questa scelta l’ha fatta soprattutto per amore, per amore di sua figlia, perché non voleva un padre mafioso per Denise, un padre che sarebbe finito in galera o addirittura morto ammazzato.

La nostra grande rabbia — sia mia, soprattutto, perché mia mamma poi è venuta a mancare — è che Lea, quando era in vita, non è stata creduta. Lea ha dovuto morire per essere credibile.

Lei aveva denunciato un omicidio che aveva visto, aveva fatto nomi e cognomi, ha denunciato lo spaccio di droga che avveniva a Viale Montello a 6, ma non c’è stato mai un processo, nessuno mai è stato indagato, nessuno mai è stato arrestato.

Solo dopo la sua morte ci sono stati decine e decine di arresti. E qua dico che ci sono state delle grosse responsabilità istituzionali che purtroppo nessuno pagherà mai.

Non è stato un delitto di ‘ndrangheta, ma è stato un delitto di Stato — scusate il giro di parole, comunque — perché Lea si poteva salvare. Nessuno ha mostrato interesse quando Lea era in vita, nonostante avesse scritto anche una lettera diretta al Presidente della Repubblica in richiesta di aiuto. Nessuno l’ha mai aiutata.

Lea, comunque, da sola ha vinto la sua battaglia. Lea da sola ha sconfitto un intero clan di ‘ndrangheta. E io concludo dicendo: facciamo anche noi in modo di essere Lea, testimoni di verità e di giustizia.

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