C’è chi la mafia l’ha combattuta con le leggi, chi con l’inchiostro, chi con la divisa.
E poi ci sono quelli che l’hanno combattuta facendosi scudo umano, ogni giorno, in silenzio, in macchina, con gli occhi sempre allerta e il cuore pieno di paura – ma anche di dignità.
Due di loro, Nicola Catanese, caposcorta di Paolo Borsellino, e Domenico Scordino, membro della staffetta di scorta a Giovanni Falcone, sono saliti sul palco a Caselle Torinese per condividere con il pubblico il loro racconto.
E lo hanno fatto nel modo più potente possibile: senza retorica, con parole vive, ricordi affilati e – perfino – qualche risata.
Nicola Catanese: la monetina e il giorno che cambiò tutto
La voce di Nicola Catanese, mentre racconta il 19 luglio 1992, è spezzata. È il giorno della strage di via D’Amelio.
Lui era caposcorta del giudice Paolo Borsellino.
Quella mattina, per pura casualità, una monetina decide il cambio turno. Pochi minuti dopo, l’esplosione.
“Se non fosse uscita croce – dice – saremmo morti anche noi.”
Ma non è il destino il cuore del racconto: è la denuncia.
“Lo Stato sapeva. Lo Stato non ha fatto niente. Anzi: hanno tentato di punirci mentre facevamo il nostro lavoro.”
Non si presenta da eroe, Nicola, ma da testimone.
Condivide un dolore che non passa e una richiesta che ancora oggi è viva: giustizia, non retorica.
Domenico Scordino: Palermo, elicotteri negati e orgoglio da volante
Più ironico, ma altrettanto coinvolgente, è il racconto di Domenico Scordino.
Ha fatto parte della squadra mobile di Palermo e della staffetta di scorta a Giovanni Falcone.
Ricorda i giorni dei pedinamenti, delle “vane ricerche” a casa di Riina e Bagarella, ma anche la rabbia per quegli elicotteri negati – “perché costavano troppo” – nonostante le minacce evidenti.
Racconta Palermo “città sanguinaria”, i turni senza fine, le auto blindate, la sirena nel traffico, gli omicidi rilevati anche mentre la moglie lo raggiungeva per un momento di normalità.
Due voci, un solo appello: non dimenticare
Nessuna frase a effetto. Nessuna finzione.
Solo due uomini, davanti a un pubblico che ascolta.
E nel loro modo schietto, umano, diretto, ci ricordano una cosa semplice:
la memoria non è cerimonia, è esercizio civile. È ascolto. È riconoscenza.
📜 Di seguito le trascrizioni integrali dei due interventi
I racconti, in più momenti, si sono intrecciati spontaneamente tra loro, dando vita anche a momenti leggeri, in cui una risata ha aiutato a respirare, senza mai sminuire il peso delle parole.
Ci si scusa per eventuali errori, ma si è scelto di lasciare intatta la forza autentica delle voci.
(Segue trascrizione di Nicola Catanese e Domenico Scordino)
Intervento di Nicola Catanese
Salve, grazie a tutti di essere qua, venuti a sentirci. Grazie a Mauro, grazie alle istituzioni, grazie a tutti.
Sono Nicola Catanese, già caposcorta del dottore Paolo Borsellino.
Come sono uscito io dalla strage? Distrutto. Distrutto, perché tutti quanti noi allora ci abbiamo messo l’anima, tutti noi stessi, per proteggerlo. Però lo sapevamo che era nel mirino. Dopo la strage di Capaci c’era lui nel mirino, e lo Stato ne era a conoscenza. E non ha fatto niente.
Mi dispiace dirlo, ma è così. Ecco dove nasce l’idea di Sergio di combattere la legalità… l’illegalità, scusatemi. E quando mi ha chiamato Sergio, gli ho dato la mia disponibilità, perché io sin da bambino – ragazzi, lo dovete sapere – quando andavo a scuola difendevo i poveracci che subivano i sopprusi dei prepotenti. Da allora ho fatto questa mia scelta. Ne ho fatto di tutto, sono entrato in polizia. E dico anche: avevo fatto pure prima la domanda nei carabinieri, nella finanza… è venuta prima la polizia.
Io vengo anche da una generazione dove ci sono parenti, zii, poliziotti, carabinieri e finanzieri. Ho qua mio cugino, maresciallo dei carabinieri, che sta qua a Torino, fa servizio qua. Ho mia figlia che è entrata nei carabinieri. Perciò vi dico: ce l’abbiamo proprio nel sangue, nella mia famiglia.
Vedete questo soggetto qua? È Mimmo Scortino. Quarant’anni insieme in polizia. Abbiamo fatto scorte sia a Palermo che a Messina. Quello mi bullizza sempre, quella persona. È un onore essere chiamati – questo dimostra che siamo una famiglia – non è da tutti che ci chiamano “Cip e Ciop”. Uno che scortava Falcone e faceva la staffetta… è un caposcorta. Anzi, per noi è un onore. Il Presidente ci chiama addirittura “Ficarra e Picone”!
Comunque, è venuta a lamentarsi (riferito Scortino che scerza con Paolo Di Giannantonio) per dire al giornalista di farmi stringere, perché quando prendo il microfono non la smetto mai. Comunque, mi hai fatto perdere il discorso, hai visto? Andiamo a stringere allora.
Non mi fanno restare, non mi hanno fatto parlare… Comunque, poi: nell’87 sono entrato in polizia, ho fatto i miei anni e sono andato a finire all’ufficio scorte di Palermo. Subito dopo la strage di Falcone, l’ufficio mi ha proposto: “C’è una nuova scorta da fare.” Ho detto: “Qual è il problema? Accetto.” Non sapendo chi era il personaggio.
Dice: “Il dottore Borsellino.” E io: “Qual è il problema?” A una condizione: mi sono scelto i miei ragazzi, tutti della mia città. La scorta era tutta messinese. Poi c’era la staffetta che girava: erano palermitani, di altre province… era vista. Comunque, comandavo sempre io.
Andiamo al giorno della strage. Quella mattina ho fatto 7:30. Monto alle 7 e do il cambio ai colleghi. Restiamo là, a disposizione. Verso le nove, il dottore Borsellino mi chiama, mi avvicino e mi dice: “Vai a provare le macchine, che dobbiamo uscire.”
Al che gli dico il solito: “Perché?” Gli ho detto così, perché lui la domenica, prima, andava in chiesa, si sentiva la Santa Messa e poi andava dalla madre. Dice: “No, vado a casa, a Villa Grazia di Carini, vicino al mare, vicino all’aeroporto.” Dico: “Va bene.” Preparo tutto il dispositivo. Il dottore scende e partiamo.
Arrivati nelle vicinanze della casa, la prima macchina – la staffetta, che ci precedeva – si distacca, va sul posto, controlla, bonifica e via radio mi dice: “È tutto a posto.” Allunghiamo, arriviamo sul posto. Scendono gli uomini. Scendo io per ultimo col dottore Borsellino, lo accompagno a casa e gli dico: “Dottore, come rimaniamo? Quando esce?” Dice: “Non lo so, primo pomeriggio, tardo pomeriggio… non lo so. Le farò sapere.” Va bene. Esco, vado dai ragazzi. “Tutto a posto?” Chiedo: “C’è qualche problema?” “No.”
Scusate un attimo. Ho detto ai ragazzi: “Devo fare una telefonata.” Là vicino c’era una cabina. Che faccio? Vado, chiamo la mia ragazza, che ora è mia moglie. E ci siamo messi a parlare. Le dico: “Vedi che io domani, dopo la notte, non scendo a Messina. Resto qua per recuperare un altro giorno, in modo tale che la prossima volta che scendo sto di più.” Lei mi risponde: “Ma giusto giusto domani che è il mio compleanno?”
Ho detto: “Non scendo.” “Ma dai, domani è il mio compleanno…” Io da uomo chiudo il telefono. Dopo due secondi ero pentito, perché noi uomini siamo tutti così. Chiudo il telefono, mi avvicino ai ragazzi, e come ho detto ci ripenso e chiedo – da premettere che essendo il caposcorta potevo decidere io – però, per non creare dissapori fra di loro, dico: “Ce la giochiamo alla monetina.”
In che senso? Testa: restiamo. Croce: chiamiamo il cambio. È uscita croce. E purtroppo, per coloro che ci hanno dato il cambio, sono morti. Sono venuti, ci hanno dato il cambio sul posto. Se no, il cambio l’avremmo fatto tutti in via D’Amelio. Anziché i cinque che ne sono morti, saremmo morti il doppio. E io ringrazio quella monetina, io e quelli che siamo rimasti lì. Quella monetina che è uscita croce.
Purtroppo è andata male per coloro che ci hanno dato il cambio.
Questa è la mia storia. E dico che lo Stato poteva fare di più. Abbiamo chiesto zona rimozione. Hanno fatto finta di niente, sia a parole, facendo casino negli uffici, sia con relazioni scritte. Se ne sono fregati. Addirittura, mentre facevo servizio – sto chiudendo – hanno fatto di tutto per punirmi, mentre facevo il mio lavoro.
Questa è la storia. Questo è lo Stato. Perciò voi, assieme a noi, dobbiamo combattere.
Grazie mille.
Intervento di Domenico Scordino
P. D.: Per parlare di Giovanni Falcone, di quegli anni che sono stati così travagliati, nella squadra Catturandi…
P. D.: Potrei dire tutto. Quando voi facevate festa sotto la questura, io ero uno di quelli che stava lì a vedere quello che succedeva.
Quando c’è stata la cattura di Brusca… Buonasera a tutti. Ringrazio – mi sfugge il nome… Mauro – perché le emozioni, insomma… ringrazio Mauro per avermi invitato.
Io mi sento piccolino davanti a tutte queste storie. Io non ho fatto nulla di particolare.
Sono stato operativo negli anni ’80… scusate, parlo in piedi perché sono emozionato, non riesco a stare seduto. Alla fine degli anni ’80 ho lavorato alla squadra mobile di Palermo, alla sesta sezione Catturandi.
La sesta sezione Catturandi era diretta – purtroppo – dal dottore Epifani, Mario Epifani, che poi è stato indagato per depistaggio, perché faceva parte della Commissione stragi, insieme al dottore La Barbera, che era il mio dirigente alla squadra mobile.
Alla mobile di Palermo abbiamo catturato latitanti pericolosi, tanti: Salvatore Prestifilippo, Mario Marchese… abbiamo fatto pedinamenti, appostamenti, facevamo le cosiddette “vane ricerche”, così si chiamavano allora, perché non c’era tutta questa gran voglia di catturare i latitanti mafiosi.
Facevamo vane ricerche a casa di Riina, a casa di Leoluca Bagarella…
Abbiamo fatto operazioni con il dottore Epifani – mi dispiace sapere che fu indagato, credo comunque che sia stato assolto – io non ho mai avuto confidenza con i latitanti mafiosi, perciò quando siamo andati a fare una perquisizione a casa di Riina…
Di solito andavamo, bussavamo, dicevamo: “Dobbiamo fare una perquisizione perché dà alloggio in cerca di Riina.” che Non c’era.
E neanche Leoluca Bagarella.
Lui gli ha sfondato la porta, ha fatto sentire male la madre, che era ottantenne. Si è sentita male.
Ha schiaffeggiato il fratello, perché il fratello si è inalberato, quando abbiamo esibito i documenti per fare le varie ricerche.
Ci siamo ritrovati in cucina a identificare tutti, la moglie che era la signora Bagarella…
E insomma, erano quegli anni. Io Palermo la ricordo con tanta nostalgia, perché ci ho fatto i miei anni da giovane.
Poi Palermo era una città – come dice Salvatore Borsellino – era una città sanguinaria.
Erano i tempi del maxiprocesso. Eravamo sotto assedio. Scortavamo anche i giudici popolari.
I giudici popolari erano un sacco di persone che venivano scortate: salivano su un pulmino e c’erano due volanti che li accompagnavano.
Poi, dopo la squadra mobile, sono stato trasferito alla squadra volanti – per una mia questione personale – col dottore Buonafede, perché non capiva l’antimafia in Sicilia… insomma, io ero giovane, e mi sono fatto trasferire alle volanti.
E lì mi è toccato fare – no, non “mi è toccato”, lo facevo con grandissimo piacere – la staffetta.
Facevo parte del dispositivo di scorta del dottore Falcone. C’erano le sue macchine blindate, dietro c’era l’Alfetta o un’altra volante.
Io ero la macchina apripista, quella che apriva la strada.
I miei colleghi anziani – a Palermo si usava così – l’anziano faceva il capo pattuglia, il meno anziano guidava, e il più giovane, dietro, come dicevano allora, “faceva la cassetta”.
Mi dicevano: “Rispondi alla radio quando senti la radio.” Allora: “Volante 30, c’è da fare la staffetta al dottore Falcone. Siete disponibili?”
Io rispondevo: “Sì.” E il mio collega diceva: “Non lo sento… non lo sento…”, perché era perfetta, la volante perfetta.
E a me – devo dire la verità – a me piaceva guidare con la sirena, guidare in quel modo, in mezzo al traffico.
Certe volte eravamo pure seguiti dall’elicottero, dall’alto. Il dottore Falcone andava in piscina, e c’era l’elicottero, perché era super, super scortato.
Ma quando tornava da Roma, verso gli ultimi periodi…
Il dottore Meli si è messo di traverso, che era il procuratore capo di Palermo.
A Roma aveva l’elicottero. L’ufficio scorte della questura gli rispondeva: “No, l’elicottero non è possibile, ci vogliono 5 milioni, 6 milioni solo per alzarlo in volo. E noi questi soldi non li abbiamo.”
Perché con l’elicottero, arrivando a Palermo, sarebbe atterrato a Boccadifalco.
Da Boccadifalco non avrebbe percorso l’autostrada. Sarebbe arrivato direttamente in città. Invece no.
E poi, purtroppo, nel 1992, quando c’è stata la strage, io ero già stato trasferito a Messina, sempre all’ufficio scorte.
Io e questo signore qua (indica Catanese), abbiamo continuato a fare scorte fino alla fine – non dei nostri giorni, ma fino alla fine del nostro servizio.
Siamo andati in pensione.
Io, l’ultimo giorno, ho scortato il dottor Antoci a Palermo. L’ultimo giorno, ho fatto la scorta al dottor Antoci.
Però, dico, ricordo con molto piacere Palermo, anche se era una città ferita, una città sanguinaria.
Veniva a trovarmi mia moglie. Ogni tanto, quando veniva a trovarmi, le dicevo: “Fammi rilevare questo omicidio, e poi ci vediamo in albergo.”
Ogni volta che veniva mia moglie, succedeva qualcosa.
Io penso che ci siano stati 90 omicidi in sei mesi a Palermo.
Una volta, a una persona gli hanno fatto saltare il motore dell’auto, lo hanno fatto fermare esattamente dove volevano, e poi gli hanno sparato in faccia con una canna mozza.
Nonostante tutto questo, io ricordo Palermo con molta nostalgia. Ci torno spesso.
Ma allora, Palermo di notte… non si poteva stare in giro.
Io mi ricordo che uscivo dalla questura, certe volte andavo a piedi al Tretto – sono un po’ di chilometri – e toglievo il tesserino, me lo mettevo in tasca, la pistola pure.
Se qualcuno mi avesse fermato per una rapina, gli davo il portafoglio, e con l’altra mano… magari sparavo due colpi.
Non l’avrei mai fatto. Non siamo così violenti come ci vogliono far credere.
Comunque, questa è la mia storia di Palermo.
Poi, a Messina, abbiamo fatto le scorte. Abbiamo scortato anche Salvatore Antoci.
Insomma, grazie. Gli altri hanno raccontato, ma le loro sono storie più importanti della mia.
Io non ho subito nessun danno. Lui (Catanese) ha rischiato davvero di essere fatto secco.
Gli è andata bene… non grazie alla monetina, ma grazie a sua moglie.