Ci sono interventi che non si raccontano: si ascoltano. E, se non si ha avuto la fortuna di esserci, non bastano né i video né gli audio per restituire la forza di quelle parole. Serve leggerle, con lentezza. Serve accoglierle, prendersi il tempo di farle entrare, come un dovere civile e umano.
Quello pronunciato da Salvatore Borsellino, a Caselle, è stato uno di quei momenti in cui tutto il resto — beghe personali, rancori, imposizioni — si azzera. Perché quando si parla di giustizia, di verità, di Stato e di mafia, il contorno svanisce. Resta solo il nucleo: la sostanza, il peso delle parole.
La nostra comunicazione è diversa da molte altre. Non privilegia la forma, ma il significato. Non rincorre la notizia, ma il senso profondo che la attraversa.
E per questo non commenteremo, non interpreteremo.
Lo ripubblichiamo integralmente, trascritto con fedeltà e cura, come lettura civile, come memoria condivisa.
Perché la voce di Salvatore Borsellino non ha bisogno di filtri.
Ha solo bisogno di una cosa:
essere letta. Con attenzione. E con rispetto.
Il discorso integrale di Salvatore Borsellino
Non potevo mancare qui stasera, tra gli amici di Mauro Esposito. Perché la sua vicenda mi ha fatto capire che ho sbagliato tutto nella mia vita.
Ho sbagliato quando, a 27 anni, ho lasciato Palermo pensando di lasciarmi alle spalle ciò che non mi piaceva. Palermo non mi piaceva perché era dominata dalla mafia. A Palermo non c’era lo Stato: c’era la mafia.
Da ragazzi, non sapevamo neanche cosa fosse la mafia, perché la mafia era lo Stato. Il sindaco era mafioso. Palermo – come tante altre città del Sud – era stata abbandonata dallo Stato, usata solo come serbatoio di voti per chi governava il Paese. E per questo, lì non c’era lavoro. Appena laureato in ingegneria, non ho avuto altra scelta: sono andato a cercare lavoro al Nord.
Ma lì ho commesso il mio errore più grande: ho creduto di aver trovato un altro Paese. Ho pensato che tutto ciò che non mi piaceva fosse rimasto giù, e che qui, al Nord, lo Stato ci fosse davvero.
La storia di Mauro Esposito mi ha dimostrato che non è così.
Qui la mafia c’è. C’è l’‘ndrangheta. C’è la criminalità organizzata. Ma è diversa. Ha un volto più pulito, più difficile da riconoscere. E quindi è più difficile da combattere.
Qui la mafia non è più quella con la coppola e la lupara. È la mafia che si infiltra nelle amministrazioni pubbliche. È la mafia degli appalti, dello scambio di voti. È la mafia “che sa come stare nei palazzi”.
E io, qui, ho sbagliato. Ho pensato che la mafia non mi riguardasse più. Che spettasse ad altri – allo Stato, alla magistratura, alle forze dell’ordine – combatterla.
Io avevo risolto i miei problemi.
Ed è per questo che da trent’anni cerco di meritarmi il titolo di “fratello di Paolo Borsellino”. Perché essere fratello biologico è un fatto anagrafico. Ma essere fratelli davvero significa aver condiviso la stessa battaglia, gli stessi sogni.
E allora, se c’è un vero fratello di Paolo, quello si chiama Giovanni Falcone.
Io ho tante colpe. La più grande è aver creduto che andandomene da Palermo mi fossi liberato.
Ho dovuto aspettare che mi ammazzassero un fratello per cominciare a fare qualcosa. Per iniziare a fare la mia piccola parte.
Il giorno dopo la strage, nostra madre ci disse che da quel momento avremmo dovuto andare ovunque ci avessero chiamati, per non far morire il sogno di Paolo.
Ci disse: “Finché qualcuno parlerà di vostro fratello, vostro fratello non sarà morto.”
E così è da trent’anni che vado in giro. Vado nelle scuole. Parlo. Cerco giustizia.
Ma purtroppo, chi cerca giustizia in questo Paese viene abbandonato dallo Stato.
Lo dico con dolore, ma è così.
Questo è uno dei momenti più bui della mia vita. L’anno scorso ero sul punto di lasciar perdere tutto. Ho chiamato i miei figli in ospedale per salutarli.
Poi mi sono rimesso in piedi. Ma oggi, a volte penso che forse sarebbe stato meglio chiudere gli occhi allora, per non vedere quello che sta succedendo adesso nel mondo.
Perché quello che accade in Palestina è inaccettabile. Uno Stato che si comporta come i terroristi. E tutto questo avviene nel silenzio complice del mondo.
I media parlano solo del delitto di Garlasco. Mostrano un bambino palestinese salvato e curato in Italia, ma non parlano dei suoi dieci fratelli uccisi.
Questo è silenzio complice.
E lo stesso silenzio lo vedo nella Commissione Antimafia, dove non si cerca la verità. Dove si coprono depistaggi, si riscrivono storie, si infangano le vittime.
Io di depistaggi ne ho visti tanti. Ce ne sono stati nel processo Borsellino 1, 2, 4… E uno dei peggiori è quello orchestrato con Vincenzo Scarantino.
Gli hanno messo in bocca tutto: l’auto, il garage, l’esplosivo. Ma Scarantino diceva il falso. E chi gli ha messo in bocca quei falsi era dello Stato.
Come facevano a sapere quei dettagli, se non erano coinvolti?
Poi è arrivato Gaspare Spatuzza, che ha raccontato la verità. Ha detto che c’era una persona, presente alla preparazione dell’auto, che non era mafiosa.
Non la conosceva. Perché era una persona dei servizi. E i mafiosi si conoscono sempre tra loro. Se non si conoscono, vengono presentati dai capi famiglia.
Chi era quella persona? Era uno di quelli che, subito dopo la strage, hanno sottratto l’agenda rossa ancora dalla macchina in fiamme.
Quell’agenda che non è mai più stata ritrovata.
L’agenda rossa è la scatola nera di quella strage.
E se venisse fuori, sapremmo che quella non è stata una strage di mafia. È stata – e io continuerò a dirlo – una strage di Stato.
Così come la strage di Capaci. Non può essere stata solo opera di mafiosi come Brusca.
Brusca oggi è libero per una legge dello Stato. Ma ci sono anche ergastolani che non hanno mai collaborato, e che ricevono permessi premio.
E si dà la colpa a Falcone, perché ha scritto quella legge. Ma senza i collaboratori di giustizia, non avremmo saputo nulla.
E oggi, nella Commissione Antimafia, il presidente è una persona che si fa fotografare con un assassino come Luigi Ciavardini.
Stanno riscrivendo la storia.
Stanno cercando di togliere dalle stragi le responsabilità dello Stato.
Stanno cercando di spezzare quel filo nero che lega tutto: la strage di Portella della Ginestra, l’omicidio Moro, Capaci, via D’Amelio, Georgofili, Palestro.
Io ho perso la speranza di vedere la verità. Non credo di farcela, nella vita che mi resta.
Ma oggi la mia speranza sono i giovani.
Solo loro possono cambiare le cose.
Solo loro potranno continuare a gridare giustizia, quando io non avrò più voce per farlo.
Solo loro potranno chiedere, ancora, la verità sull’agenda rossa.
Io vengo isolato dallo Stato, dai suoi rappresentanti. Ma non importa.
Importa che i giovani abbiano il coraggio di continuare.
E che abbiano anche il coraggio di chiedere scusa, se un giorno si renderanno conto che anche loro, come noi, hanno lasciato che tutto questo accadesse.
Salvatore Borsellino Caselle T.se 14/06/2025