Dopo la prima puntata in cui abbiamo spiegato perché ci sarà un referendum l’8 e 9 giugno 2025, entriamo ora nel cuore della questione: i cinque quesiti referendari abrogativi.
Promossi dalla CGIL (e da altri movimenti per quanto riguarda il quesito sulla cittadinanza), questi quesiti toccano temi complessi: licenziamenti, contratti a termine, responsabilità negli appalti, tempi per la cittadinanza italiana.
Come al solito, Ticronometro fa quello che sa fare meglio: prende testi complicati, li traduce in italiano comprensibile, aggiunge esempi pratici, riassume i pro e i contro di ogni scelta e ti mostra perfino come sarà fatta la scheda elettorale.
🎯 Cosa troverai nella guida
Per ciascun quesito trovi:
-
Il testo ufficiale, così com’è stato depositato
-
Una spiegazione semplice e diretta
-
Un esempio concreto che aiuta a capire l’impatto sulla vita quotidiana
-
I vantaggi e gli svantaggi del SÌ
-
I vantaggi e gli svantaggi del NO
-
Chi propone il quesito e perché
-
Il fac-simile della scheda che riceverai al seggio
⚠️ Non diciamo cosa votare. Ma ti mettiamo in condizione di scegliere con la testa.
📝 Quesito 1 – Contratto a tutele crescenti: disciplina dei licenziamenti illegittimi
Testo ufficiale:
«Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” nella sua interezza?»
🔍 Cosa significa in parole semplici
Il decreto legislativo n. 23/2015, noto come Jobs Act, ha introdotto il contratto a tutele crescenti per i lavoratori assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015. In caso di licenziamento illegittimo, questa normativa prevede che il lavoratore riceva un’indennità economica proporzionata all’anzianità di servizio, ma non il reintegro nel posto di lavoro, salvo in casi eccezionali come licenziamenti discriminatori o nulli.
Esempio pratico:
Immagina di essere stato assunto a tempo indeterminato nel 2016. Se vieni licenziato senza una giusta causa e il giudice lo riconosce, attualmente hai diritto a un risarcimento economico, ma non al reintegro nel tuo posto di lavoro.
🗳️ Cosa succede se vince il SÌ
L’abrogazione del decreto eliminerebbe il contratto a tutele crescenti. Di conseguenza, si tornerebbe alla normativa precedente, che prevedeva la possibilità di reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, come stabilito dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, modificato dalla Legge Fornero nel 2012.
Pro del SÌ:
-
Maggiore tutela per i lavoratori: possibilità di tornare al proprio posto di lavoro se licenziati ingiustamente.
-
Deterrente per i datori di lavoro: il rischio del reintegro potrebbe dissuadere licenziamenti arbitrari.
Contro del SÌ:
-
Possibile aumento del contenzioso legale: i datori di lavoro potrebbero essere più cauti nelle assunzioni, temendo difficoltà nel licenziare.
-
Rigidità del mercato del lavoro: potrebbe rendere più difficile per le aziende adattarsi a cambiamenti economici o organizzativi.
🗳️ Cosa succede se vince il NO
La normativa attuale rimarrebbe in vigore. I lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 continuerebbero a essere soggetti al contratto a tutele crescenti, con indennizzo economico in caso di licenziamento illegittimo, ma senza diritto al reintegro, salvo casi eccezionali.
Pro del NO:
-
Maggiore flessibilità per le aziende: facilita l’adattamento a esigenze economiche e organizzative.
-
Chiarezza nelle regole: indennizzi predefiniti possono ridurre l’incertezza legale.
Contro del NO:
-
Minore protezione per i lavoratori: impossibilità di tornare al lavoro anche se il licenziamento è ingiusto.
-
Disparità di trattamento: differenze nelle tutele tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015.
🧩 Chi lo propone e perché
Il quesito è promosso dalla CGIL, che sostiene che il contratto a tutele crescenti abbia indebolito le protezioni per i lavoratori, rendendo più facile per le aziende licenziare senza giusta causa, senza offrire la possibilità di reintegro.
📎 Fac-simile scheda Quesito 1:
Colore scheda: verde
Link al fac-simile della scheda di voto
📝 Quesito 2 – Piccole imprese: licenziamenti e indennità
Testo ufficiale:
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?»
🔍 Cosa significa in parole semplici
Attualmente, nelle piccole imprese (con meno di 16 dipendenti), se un lavoratore viene licenziato senza giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro può scegliere tra:
-
Riassumere il lavoratore entro tre giorni;
-
Risarcire il lavoratore con un’indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione, determinata dal giudice in base a vari fattori come l’anzianità di servizio e le dimensioni dell’impresa.
Il quesito referendario propone di eliminare i limiti minimi e massimi dell’indennità, lasciando al giudice la piena discrezionalità nel determinarne l’importo, basandosi su criteri come l’età del lavoratore, i carichi familiari e la capacità economica dell’azienda.
Esempio pratico:
Se lavori in una piccola impresa da 12 anni e vieni licenziato senza giusta causa, attualmente potresti ricevere un’indennità massima di 6 mensilità. Se il referendum abroga i limiti, il giudice potrebbe decidere un risarcimento superiore, tenendo conto della tua anzianità e delle tue condizioni personali.
🗳️ Cosa succede se vince il SÌ
L’abrogazione delle parti indicate dell’articolo 8 comporterebbe:
-
Eliminazione dei limiti minimi e massimi dell’indennità;
-
Maggiore discrezionalità per il giudice nel determinare l’importo del risarcimento, basandosi su criteri equitativi.
Pro del SÌ:
-
Maggiore equità: il risarcimento può essere adeguato alle specifiche circostanze del lavoratore;
-
Deterrente per licenziamenti ingiustificati, poiché l’indennità potrebbe essere più elevata.
Contro del SÌ:
-
Incertezza per i datori di lavoro riguardo all’entità del risarcimento;
-
Possibile aumento del contenzioso legale, data la maggiore discrezionalità del giudice.
🗳️ Cosa succede se vince il NO
La normativa attuale rimarrebbe in vigore:
-
Il datore di lavoro può scegliere tra riassumere il lavoratore o risarcirlo con un’indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità;
-
I limiti dell’indennità restano fissi, con possibilità di aumento fino a 10 o 14 mensilità in determinate condizioni.
Pro del NO:
-
Prevedibilità dei costi per i datori di lavoro;
-
Stabilità normativa, evitando incertezze legali.
Contro del NO:
-
Possibile inadeguatezza del risarcimento rispetto al danno subito dal lavoratore;
-
Limitata tutela per i lavoratori con lunga anzianità o condizioni personali particolari.
🧩 Chi lo propone e perché
Il quesito è promosso dalla CGIL, che sostiene che i limiti attuali dell’indennità non garantiscano una tutela adeguata per i lavoratori delle piccole imprese, soprattutto in caso di licenziamenti ingiustificati. L’obiettivo è permettere al giudice di determinare un risarcimento più equo, basato sulle specifiche circostanze di ciascun caso.
📎 Fac-simile scheda Quesito 2:
Colore scheda: arancione
Link al fac-simile della scheda di voto
📝 Quesito 3 – Contratti a termine: ritorno all’obbligo di causale
Testo ufficiale:
«Volete voi che sia abrogato il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, avente ad oggetto “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183” limitatamente alle seguenti parti: Articolo 19, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2025, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b-bis)”; comma 1-bis, limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “, in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; Articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?»
🔍 Cosa significa in parole semplici
Attualmente, in Italia, un datore di lavoro può assumere un dipendente con un contratto a tempo determinato fino a 12 mesi senza specificare una motivazione (causale). Solo se il contratto supera i 12 mesi, è necessaria una causale che giustifichi la temporaneità del rapporto.
Il quesito propone di abrogare le norme che permettono questa flessibilità, reintroducendo l’obbligo di indicare una causale sin dall’inizio del contratto a termine, indipendentemente dalla sua durata.
Esempio pratico:
Oggi, un’azienda può assumere un lavoratore con un contratto di 11 mesi senza dover spiegare il motivo. Se il referendum abroga questa possibilità, l’azienda dovrà indicare una causale anche per contratti di breve durata.
🗳️ Cosa succede se vince il SÌ
Con l’abrogazione proposta:
-
Obbligo di causale: ogni contratto a termine, indipendentemente dalla durata, dovrà essere giustificato da una motivazione specifica (esigenze tecniche, organizzative, sostituzioni, ecc.).
-
Maggiore controllo: i contratti a termine saranno soggetti a una maggiore regolamentazione e controllo.
Pro del SÌ:
-
Riduzione della precarietà: limitando l’uso indiscriminato dei contratti a termine, si promuove una maggiore stabilità lavorativa.
-
Tutela dei lavoratori: obbligando le aziende a motivare l’uso di contratti a termine, si protegge meglio il diritto al lavoro stabile.
Contro del SÌ:
-
Minore flessibilità per le aziende: le imprese potrebbero incontrare difficoltà nell’adattarsi rapidamente a esigenze temporanee.
-
Possibile aumento del lavoro irregolare: alcune aziende potrebbero ricorrere a forme di lavoro non regolari per evitare l’obbligo di causale.
🗳️ Cosa succede se vince il NO
La normativa attuale rimarrebbe in vigore:
-
Le aziende potranno continuare ad assumere con contratti a termine fino a 12 mesi senza specificare una causale.
-
Solo per contratti superiori ai 12 mesi sarà necessaria una motivazione.
Pro del NO:
-
Flessibilità per le imprese: le aziende possono gestire più facilmente esigenze temporanee o stagionali.
-
Semplificazione burocratica: meno obblighi formali nella stipula dei contratti a termine.
Contro del NO:
-
Persistenza della precarietà: i lavoratori possono essere assunti e lasciati senza una reale motivazione.
-
Possibile abuso: le aziende potrebbero utilizzare i contratti a termine senza una reale necessità, evitando l’assunzione a tempo indeterminato.
🧩 Chi lo propone e perché
Il quesito è promosso dalla CGIL, che sostiene che la possibilità di assumere senza causale fino a 12 mesi abbia aumentato la precarietà nel mercato del lavoro. L’obiettivo è ripristinare l’obbligo di motivazione per ogni contratto a termine, garantendo maggiore stabilità e tutela per i lavoratori.
📎 Fac-simile scheda Quesito 3:
Colore scheda: grigio
Link al fac-simile della scheda di voto
📝 Quesito 4 – Responsabilità negli infortuni negli appalti
Testo ufficiale:
«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, limitatamente alle parole: “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?»
🔍 Cosa significa in parole semplici
Attualmente, in caso di infortunio sul lavoro di un dipendente di un’impresa appaltatrice o subappaltatrice, il committente (cioè chi affida l’appalto) è responsabile in solido con l’appaltatore e il subappaltatore solo se l’infortunio non è riconducibile ai “rischi specifici” dell’attività dell’appaltatore o subappaltatore. In altre parole, se l’infortunio è causato da rischi tipici dell’attività dell’appaltatore, il committente non è responsabile.
Esempio pratico:
Un’azienda committente affida a un’impresa appaltatrice la manutenzione di macchinari. Se un lavoratore dell’appaltatore si infortuna a causa di un rischio specifico della manutenzione (ad esempio, un guasto del macchinario), il committente non è responsabile.
🗳️ Cosa succede se vince il SÌ
L’abrogazione della parte indicata dell’articolo 26 comporterebbe che il committente diventi sempre responsabile in solido con l’appaltatore e il subappaltatore per gli infortuni sul lavoro, anche se causati da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o subappaltatore.
Pro del SÌ:
-
Maggiore tutela per i lavoratori: i lavoratori avrebbero più possibilità di ottenere un risarcimento, potendo rivalersi anche sul committente.
-
Incentivo alla sicurezza: i committenti sarebbero incentivati a scegliere appaltatori affidabili e a monitorare meglio le condizioni di sicurezza.
Contro del SÌ:
-
Aumento dei costi per i committenti: le aziende potrebbero sostenere costi aggiuntivi per coprire i rischi legati agli appalti.
-
Possibile riduzione degli appalti: alcuni committenti potrebbero limitare il ricorso agli appalti per evitare responsabilità aggiuntive.
🗳️ Cosa succede se vince il NO
La normativa attuale rimarrebbe in vigore: il committente non sarebbe responsabile per gli infortuni causati da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o subappaltatore.
Pro del NO:
-
Chiarezza delle responsabilità: le responsabilità rimarrebbero distinte tra committente e appaltatore.
-
Contenimento dei costi per i committenti: le aziende non sarebbero gravate da ulteriori oneri per infortuni non direttamente legati alla loro attività.
Contro del NO:
-
Minore tutela per i lavoratori: i lavoratori potrebbero avere maggiori difficoltà a ottenere un risarcimento adeguato.
-
Possibile selezione di appaltatori meno sicuri: i committenti potrebbero non essere incentivati a scegliere appaltatori con elevati standard di sicurezza.CGIL
🧩 Chi lo propone e perché
Il quesito è promosso dalla CGIL, che sostiene che l’attuale esclusione della responsabilità del committente per i rischi specifici dell’appaltatore riduca la tutela dei lavoratori. L’obiettivo è estendere la responsabilità solidale del committente per garantire una maggiore sicurezza sul lavoro e una più efficace prevenzione degli infortuni.
📎 Fac-simile scheda Quesito 4:
Colore scheda: rosso
Link al fac-simile della scheda di voto
📝 Quesito 5 – Cittadinanza italiana: riduzione da 10 a 5 anni di residenza
Testo ufficiale:
«Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?”»
🔍 Cosa significa in parole semplici
Attualmente, per uno straniero extracomunitario maggiorenne, la legge italiana richiede 10 anni di residenza legale continuativa in Italia per poter presentare domanda di cittadinanza per naturalizzazione. Il quesito propone di abrogare questa disposizione, riducendo il requisito a 5 anni di residenza legale.
Esempio pratico:
Se un cittadino extracomunitario vive legalmente in Italia da 5 anni, con il cambiamento proposto potrebbe già presentare domanda di cittadinanza, anziché attendere 10 anni come previsto attualmente.
🗳️ Cosa succede se vince il SÌ
L’abrogazione proposta comporterebbe:
-
Riduzione del requisito di residenza da 10 a 5 anni per la richiesta di cittadinanza italiana da parte di stranieri extracomunitari maggiorenni.
-
Estensione automatica del diritto di cittadinanza anche ai figli minorenni dei richiedenti, come previsto dalla normativa vigente.
Pro del SÌ:
-
Facilitazione dell’integrazione: riconoscimento più rapido per chi vive stabilmente in Italia.
-
Allineamento con altri Paesi europei: molti Stati membri dell’UE prevedono requisiti di residenza inferiori ai 10 anni.
-
Riconoscimento del contributo degli stranieri: valorizzazione del ruolo degli immigrati nella società italiana.
Contro del SÌ:
-
Preoccupazioni sulla sicurezza: timori che una riduzione dei tempi possa compromettere i controlli necessari.
-
Possibile aumento delle richieste: rischio di sovraccarico per le amministrazioni competenti nella gestione delle domande.
🗳️ Cosa succede se vince il NO
La normativa attuale rimarrebbe in vigore:
-
Requisito di 10 anni di residenza legale continuativa per la richiesta di cittadinanza italiana da parte di stranieri extracomunitari maggiorenni.
-
Nessuna modifica alle disposizioni relative ai figli minorenni dei richiedenti.
Pro del NO:
-
Mantenimento di un periodo di valutazione più lungo: maggiore tempo per verificare l’integrazione e l’adesione ai valori italiani.
-
Stabilità normativa: evitamento di cambiamenti che potrebbero generare incertezza.
Contro del NO:
-
Prolungamento della precarietà: ritardo nel riconoscimento dei diritti per chi vive stabilmente in Italia.
-
Possibile percezione di esclusione: sensazione di essere cittadini di serie B per gli stranieri integrati nella società italiana.
🧩 Chi lo propone e perché
Il quesito è promosso da un comitato composto da diverse organizzazioni e movimenti civici, tra cui +Europa, Possibile, Radicali Italiani, Rifondazione Comunista, e associazioni come “Italiani senza cittadinanza” e “CoNNGI”. L’obiettivo è facilitare l’accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri extracomunitari che risiedono legalmente nel Paese, promuovendo l’inclusione e riconoscendo il loro contributo alla società italiana.
📎 Fac-simile scheda Quesito 5:
Colore scheda: giallo
Link al fac-simile della scheda di voto
📌 Prossima puntata:
👉 Dal 18 maggio su TicDemocrazia: in modalità quiz didattico interattivo per testare quanto hai capito davvero.